Venerdì 20 giugno 2014 sono usciti i risultati della prova
scritta dell’esame di stato di avvocato 2013/2014 che ha suscitato gioie ma
soprattutto dolori, pianti, polemiche, rabbia, sconforto. E’ normale. Dopo 2
anni di praticantato (ora 18 mesi) - spesso e volentieri non pagato o
sottopagato - il praticante si ritrova a dover superare un doppio esame
(scritto e orale) che potrebbe (e sottolineo potrebbe) finalmente dargli la
chance di una vita normale. Diventare avvocato al giorno d’oggi non vuol dire
più molto. Non ha di certo il significato che poteva avere anche solo 20 anni
fa. Per la maggior parte delle persone oggi diventare avvocato vuol dire avere
uno stipendio senza dover soccombere alle leggi del mercato che vedono il
praticante un “nessuno” senza alcuna tutela, forza lavoro in eccesso e pertanto
non retribuibile. Per molti pertanto, diventare avvocato significa raggiungere
una posizione socialmente riconosciuta, ottenere un minimo potere contrattuale
che permette di strappare al proprio datore di lavoro il tanto agognato
corrispettivo.
Tuttavia, non è sulla condizione dei praticanti avvocati che
voglio soffermarmi. Ne uscirebbe un discorso troppo lungo per quanto meritevole
di attenzione. Il trattamento vergognoso a cui questi sono soggetti non è una
novità, ma in un momento di crisi del genere la drammaticità di tale condizione
viene ancora più in risalto senza che però se ne parli a sufficienza. Qualcosa
finalmente è stato fatto. Ora, il nuovo codice deontologico prevede l’obbligo,
dopo sei mesi, di retribuzione da parte del dominus
nei confronti del collaboratore. Tuttavia si tratta di un provvedimento debole,
una finta risposta alle reiterate lamentele di chi si sente umiliato dopo anni
di studi e sacrifici. Un’apparenza di cambiamento che non comporterà alcun
cambiamento.
Parlavo quindi della speranza di diventare avvocato come possibile inizio di una vita normale. Normale
nel senso di acquisire quel minimo di indipendenza economica che possa
permetterti di chiedere un mutuo, di poter pagare un affitto e iniziare a costruire
una famiglia, di poter affrontare le piccole difficoltà quotidiane senza il
continuo ma fondamentale supporto dei propri genitori. Ebbene, la porta
d’accesso a tale vita per chi sceglie la professione forense è, nella maggior
parte dei casi, l’esame di stato. Un esame apparentemente come gli altri, ma
paradossale nelle modalità di svolgimento. Solo a Milano quest’anno ci sono
stati circa 3.250 candidati che hanno sostenuto le tre prove scritte
all’interno del padiglione della vecchia fiera. Una schiera di aspiranti
avvocati che si ritrovano, il giorno prima delle prove, in file interminabili
con trolley alla mano, in attesa di entrare in questo enorme hangar che sarà il
loro unico riparo per tre lunghi ed intensi giorni. Si entra e si aspettano ore
prima che arrivi il proprio turno. Sembra di essere all’imbarco di un
aeroporto: metal detector, perquisizione e via, ciascuno (bagaglio alla mano)
parte per il proprio personale “viaggio” verso l’acquisizione del titolo.
Dopo aver incatenato per bene il trolley (contenente i
costosi codici commentati) al banco – ebbene sì, è necessario incatenarli
perché in assenza del candidato c’è gente che si diletta a rubarne il contenuto
– torni a casa, aspettando con la massima concentrazione ed un po’ di tensione
la tre giorni intensiva che ti aspetta. Le voci che girano intorno a
quest’esame tuttavia danno l’impressione che la preparazione non sia l’arma sufficiente
per svolgere l’esame con successo. Da quanto si tramanda di praticante in
praticante, sembra quasi che non esista modo per affrontare nel modo migliore
tale prova se non il votarsi a Dio, alla Fortuna o a qualsivoglia entità
astratta. Il perché di queste voci è subito svelato il primo giorno della
prova. Dopo aver dettato le tracce d’esame e aver dato il via alle scritture, i
commissari devono subito cominciare a preoccuparsi di arginare il caos che si
crea all’interno dell’enorme stanza. La situazione non è facilmente
descrivibile: candidati che passeggiano tra i banchi, modelli di atti e pareri
che passano di mano in mano, commissari che tengono banco in mezzo a capannelli
di esaminandi che penzolano dalle loro labbra in cerca di un indizio
risolutivo, continui richiami all’ordine e alla continenza (ebbene sì, proprio
quella considerate le finte code ai bagni). Se volessi paragonare tale
situazione ad un’immagine, quell’immagine – con le dovute proporzioni – sarebbe
il gran bazaar di Istanbul. Un enorme spazio dove all’interno di centinaia di
viette – i corridoi creati tra un blocco di banchi ed un altro – si muovono
centinaia di persone che passeggiano e chiacchierano amabilmente.
Non c’è che dire, una fortuna per i candidati che possono
contare anche sul supporto di migliaia di altre teste. L’unione fa la forza!
Peccato che tutto ciò faccia somigliare l’esame scritto ad una farsa, ad una
rappresentazione teatrale dell’assurdo più che ad un concorso pubblico. Ed è a
quel punto che il pensiero torna ai mesi precedenti: mesi di studio, mesi di
esercitazioni, mesi di corsi intensivi. Ritrovi carbonari durante i quali
scrivere atti e pareri a profusione secondo schemi e formule predefinite
elaborati da scuole iper-costose. Eh sì! C’è il sistema Just Legal Service, c’è
il metodo Ius and Law, ci sono i modelli, i trucchetti, i segreti che ogni
singolo corso vende ai propri iscritti in cambio di una somma che varia a
seconda della validità del metodo insegnato e dei servizi offerti. Non si va
mai comunque al di sotto dei 650 Euro e si arriva anche a 3.000 Euro per tre
mesi (intensivi) di lezione. Ebbene, nella maggior parte dei casi si scopre
subito che tutto quello che i corsi vendono a caro prezzo non è altro che un
enorme specchietto per le allodole.
Tornando alla tre giorni di prove scritte, dopo aver concluso
i compiti ed averli minuziosamente imbustati e consegnati, l’esame diventa pian
piano un ricordo annebbiato, che annega nel mare degl’impegni lavorativi e ogni
tanto torna a galla grazie alle parole di un collega o un amico. In quel lasso
di tempo – 6 mesi per l’esattezza – i candidati vivono in un limbo di
incertezze, fra chi ottimisticamente pensa di averlo passato e chi
fatalisticamente pensa che sia solo una questione di “fattore C”. Infatti non è
forse quella dello svolgimento dell’esame la fase peggiore di tale procedura
concorsuale. Ma è il momento della correzione degli scritti. Tralasciando le
numerose storie (vere ma non dimostrabili se non con testimonianze di vecchi
commissari) sui criteri di selezione officiosi (quali la calligrafia, o peggio
ancora, un numero limite prestabilito di candidati ammissibili sulla base di
una curva pseudo-gaussiana), è un dato di fatto che: i compiti che vengono
“corretti” sono intonsi, senza alcun segno indicativo della parte errata o
inopportuna, senza alcuna motivazione scritta del voto assegnato o anche solo
dell’esito finale; da verbale risulta che spesso e volentieri i commissari non
dedicano tempo sufficiente alla correzione del compito, facendo pensare ad una
lettura superficiale (se lettura c’è stata) piuttosto che ad una attenta
valutazione di un elaborato di non immediata comprensione.
Ma com’è possibile? Perché un concorso pubblico in cui c’è
in ballo il futuro professionale di migliaia di persone, per cui molte persone
hanno speso molto in termini di tempo, denaro e fatica viene gestito in modo
così approssimativo e superficiale? Quali sono gli interessi che spingono
coloro che hanno il potere di cambiare lo status
quo a non cambiare nulla? Perché fare ancora affidamento su un sistema di
valutazione e selezione vetusto, senza criterio e non meritocratico?
Apparentemente è un problema comune a tutti i concorsi
pubblici tanto da diventare una prassi accettata. Ogni tanto si legge qualche
articolo sul tema (relativamente al concorso di magistratura di quest’anno, si
veda http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/04/irregolarita-al-concorso-per-magistrati-e-le-prove-scritte-rischiano-lannullamento/1047669/),
ma poi inevitabilmente tutto finisce nel dimenticatoio. Il mio grido di
protesta vuole essere quello di tutti quegli aspiranti avvocati che amano il
loro lavoro, ma che vedono i loro sforzi frustrati da un sistema illogico che
accoglie gli incompetenti e troppo spesso allontana dalla professione i
meritevoli. Affinchè però il mio grido non sia solo di protesta e distruttivo,
con questa lettera voglio anche proporre delle piccole misure (condivise dalla
quasi unanimità della base praticante forense – e non solo) che possono portare
ad un miglioramento della situazione attuale. Seguirà quindi un elenco dei
principali problemi legati alla procedura d’esame di avvocato con le rispettive
possibili soluzioni:
1) Il numero
eccessivo di candidati
Come spesso si sente dire in giro: “Ci sono più avvocati a Roma che in tutta la Francia”. Effettivamente
il numero di laureati in giurisprudenza è elevato. Non essendoci numero chiuso
e venendo tale facoltà considerata come una delle più appetibili in termini di
sbocchi lavorativi garantiti, molte persone scelgono questa strada. Il problema
è che il sistema non è in grado di accogliere tutti questi laureati in
giurisprudenza: ci sono i concorsi di notaio e di magistrato, ma non ogni anno
e i posti sono pochi; ci sono le aziende ma in questo momento di crisi, anche
le offerte provenienti dal privato sono in calo. Cominciare la pratica legale è
l’unico modo per avere un posto di lavoro ed un salario certi. Ovviamente ciò
crea delle forti distorsioni in tema di diritti del lavoratore: rapporti di
lavoro non regolarizzati, paghe da miseria, orari di lavoro eccessivi, tutto
questo perché la domanda è elevata e i giovani, pur di lavorare, sono disposti
ad accettare tutto. La soluzione quindi è diminuire il numero della
forza-lavoro a disposizione. Ciò permetterebbe di acquisire una maggiore forza
contrattuale nei rapporti con il dominus,
con sicure ripercussioni sulla qualità del lavoro (in termini di mansioni e
retribuzione). I modi per contenere ed abbassare tale numero sono molti: 1)
numero chiuso alla facoltà di giurisprudenza; 2) abolire la possibilità di
andare fuori corso a meno che non si presenti all’università un regolare
contratto di lavoro (che appunto certifichi impegni extrascolastici che
giustifichino il ritardo negli studi); 3) obbligo di retribuzione del
praticante quale condizione necessaria per l’iscrizione e la permanenza
nell’Albo (da provare attraverso la presentazione mensile all’Ordine del
cedolino/fattura); 4) la previsione di un pre-test a crocette sul diritto
civile, penale e amministrativo prima delle tre prove scritte al fine di
effettuare una prima scrematura oggettiva basata sulla cultura giuridica
generale.
2) Irregolarità nel
corso delle prove
Un numero più basso di laureati e praticanti porta ad avere
di conseguenza un numero più basso di candidati. Ciò permetterebbe di gestire
molto meglio la situazione caotica sopra descritta. Tolleranza zero per
chiunque parli, copi, si alzi senza un valido motivo; con i commissari (e i
delegati) non si deve parlare se non per questioni di “cancelleria” (fogli
aggiuntivi, modalità di correzione di errori ecc…); fissare orari precisi per
l’inizio e la fine del compito (in altre parole, dopo le 7 ore si smette di
scrivere).
3) Tempi d’attesa
biblici
Il numero inferiore di candidati porterebbe un altro
vantaggio: ridurrebbe drasticamente il periodo intercorrente tra lo svolgimento
delle prove e l’uscita dei risultati. Definire incivile un’attesa di 6 mesi è
dir poco.
4) Criteri di
correzione poco chiari
Infine ritengo un diritto della persona esaminata l’essere
valutato sulla base di criteri certi, oggettivi e ben definiti. E soprattutto,
è un diritto del candidato sapere quali siano stati gli errori commessi nello
svolgimento delle prove (attraverso le dovute segnalazioni) e, se respinto, la
motivazione sulla base della quale i commissari hanno maturato la decisione.
Queste sono solamente alcune delle idee proposte dall'ambiente degli aspiranti avvocati per cambiare questa "porcata" di procedura selettiva. Tante altre sono presenti in blog, forum, documenti più o meno ufficiali, ma rimangono rigorosamente inascoltate. Spero che questo "grido di rabbia" possa scuotere un po' le coscienze e far sì che, anche per la categoria dimenticata dei praticanti avvocati, qualcosa possa cambiare.