lunedì 15 settembre 2014

Un esame all'italiana

Venerdì 20 giugno 2014 sono usciti i risultati della prova scritta dell’esame di stato di avvocato 2013/2014 che ha suscitato gioie ma soprattutto dolori, pianti, polemiche, rabbia, sconforto. E’ normale. Dopo 2 anni di praticantato (ora 18 mesi) - spesso e volentieri non pagato o sottopagato - il praticante si ritrova a dover superare un doppio esame (scritto e orale) che potrebbe (e sottolineo potrebbe) finalmente dargli la chance di una vita normale. Diventare avvocato al giorno d’oggi non vuol dire più molto. Non ha di certo il significato che poteva avere anche solo 20 anni fa. Per la maggior parte delle persone oggi diventare avvocato vuol dire avere uno stipendio senza dover soccombere alle leggi del mercato che vedono il praticante un “nessuno” senza alcuna tutela, forza lavoro in eccesso e pertanto non retribuibile. Per molti pertanto, diventare avvocato significa raggiungere una posizione socialmente riconosciuta, ottenere un minimo potere contrattuale che permette di strappare al proprio datore di lavoro il tanto agognato corrispettivo.
Tuttavia, non è sulla condizione dei praticanti avvocati che voglio soffermarmi. Ne uscirebbe un discorso troppo lungo per quanto meritevole di attenzione. Il trattamento vergognoso a cui questi sono soggetti non è una novità, ma in un momento di crisi del genere la drammaticità di tale condizione viene ancora più in risalto senza che però se ne parli a sufficienza. Qualcosa finalmente è stato fatto. Ora, il nuovo codice deontologico prevede l’obbligo, dopo sei mesi, di retribuzione da parte del dominus nei confronti del collaboratore. Tuttavia si tratta di un provvedimento debole, una finta risposta alle reiterate lamentele di chi si sente umiliato dopo anni di studi e sacrifici. Un’apparenza di cambiamento che non comporterà alcun cambiamento.
Parlavo quindi della speranza di diventare avvocato  come possibile inizio di una vita normale. Normale nel senso di acquisire quel minimo di indipendenza economica che possa permetterti di chiedere un mutuo, di poter pagare un affitto e iniziare a costruire una famiglia, di poter affrontare le piccole difficoltà quotidiane senza il continuo ma fondamentale supporto dei propri genitori. Ebbene, la porta d’accesso a tale vita per chi sceglie la professione forense è, nella maggior parte dei casi, l’esame di stato. Un esame apparentemente come gli altri, ma paradossale nelle modalità di svolgimento. Solo a Milano quest’anno ci sono stati circa 3.250 candidati che hanno sostenuto le tre prove scritte all’interno del padiglione della vecchia fiera. Una schiera di aspiranti avvocati che si ritrovano, il giorno prima delle prove, in file interminabili con trolley alla mano, in attesa di entrare in questo enorme hangar che sarà il loro unico riparo per tre lunghi ed intensi giorni. Si entra e si aspettano ore prima che arrivi il proprio turno. Sembra di essere all’imbarco di un aeroporto: metal detector, perquisizione e via, ciascuno (bagaglio alla mano) parte per il proprio personale “viaggio” verso l’acquisizione del titolo.
Dopo aver incatenato per bene il trolley (contenente i costosi codici commentati) al banco – ebbene sì, è necessario incatenarli perché in assenza del candidato c’è gente che si diletta a rubarne il contenuto – torni a casa, aspettando con la massima concentrazione ed un po’ di tensione la tre giorni intensiva che ti aspetta. Le voci che girano intorno a quest’esame tuttavia danno l’impressione che la preparazione non sia l’arma sufficiente per svolgere l’esame con successo. Da quanto si tramanda di praticante in praticante, sembra quasi che non esista modo per affrontare nel modo migliore tale prova se non il votarsi a Dio, alla Fortuna o a qualsivoglia entità astratta. Il perché di queste voci è subito svelato il primo giorno della prova. Dopo aver dettato le tracce d’esame e aver dato il via alle scritture, i commissari devono subito cominciare a preoccuparsi di arginare il caos che si crea all’interno dell’enorme stanza. La situazione non è facilmente descrivibile: candidati che passeggiano tra i banchi, modelli di atti e pareri che passano di mano in mano, commissari che tengono banco in mezzo a capannelli di esaminandi che penzolano dalle loro labbra in cerca di un indizio risolutivo, continui richiami all’ordine e alla continenza (ebbene sì, proprio quella considerate le finte code ai bagni). Se volessi paragonare tale situazione ad un’immagine, quell’immagine – con le dovute proporzioni – sarebbe il gran bazaar di Istanbul. Un enorme spazio dove all’interno di centinaia di viette – i corridoi creati tra un blocco di banchi ed un altro – si muovono centinaia di persone che passeggiano e chiacchierano amabilmente.
Non c’è che dire, una fortuna per i candidati che possono contare anche sul supporto di migliaia di altre teste. L’unione fa la forza! Peccato che tutto ciò faccia somigliare l’esame scritto ad una farsa, ad una rappresentazione teatrale dell’assurdo più che ad un concorso pubblico. Ed è a quel punto che il pensiero torna ai mesi precedenti: mesi di studio, mesi di esercitazioni, mesi di corsi intensivi. Ritrovi carbonari durante i quali scrivere atti e pareri a profusione secondo schemi e formule predefinite elaborati da scuole iper-costose. Eh sì! C’è il sistema Just Legal Service, c’è il metodo Ius and Law, ci sono i modelli, i trucchetti, i segreti che ogni singolo corso vende ai propri iscritti in cambio di una somma che varia a seconda della validità del metodo insegnato e dei servizi offerti. Non si va mai comunque al di sotto dei 650 Euro e si arriva anche a 3.000 Euro per tre mesi (intensivi) di lezione. Ebbene, nella maggior parte dei casi si scopre subito che tutto quello che i corsi vendono a caro prezzo non è altro che un enorme specchietto per le allodole.
Tornando alla tre giorni di prove scritte, dopo aver concluso i compiti ed averli minuziosamente imbustati e consegnati, l’esame diventa pian piano un ricordo annebbiato, che annega nel mare degl’impegni lavorativi e ogni tanto torna a galla grazie alle parole di un collega o un amico. In quel lasso di tempo – 6 mesi per l’esattezza – i candidati vivono in un limbo di incertezze, fra chi ottimisticamente pensa di averlo passato e chi fatalisticamente pensa che sia solo una questione di “fattore C”. Infatti non è forse quella dello svolgimento dell’esame la fase peggiore di tale procedura concorsuale. Ma è il momento della correzione degli scritti. Tralasciando le numerose storie (vere ma non dimostrabili se non con testimonianze di vecchi commissari) sui criteri di selezione officiosi (quali la calligrafia, o peggio ancora, un numero limite prestabilito di candidati ammissibili sulla base di una curva pseudo-gaussiana), è un dato di fatto che: i compiti che vengono “corretti” sono intonsi, senza alcun segno indicativo della parte errata o inopportuna, senza alcuna motivazione scritta del voto assegnato o anche solo dell’esito finale; da verbale risulta che spesso e volentieri i commissari non dedicano tempo sufficiente alla correzione del compito, facendo pensare ad una lettura superficiale (se lettura c’è stata) piuttosto che ad una attenta valutazione di un elaborato di non immediata comprensione.
Ma com’è possibile? Perché un concorso pubblico in cui c’è in ballo il futuro professionale di migliaia di persone, per cui molte persone hanno speso molto in termini di tempo, denaro e fatica viene gestito in modo così approssimativo e superficiale? Quali sono gli interessi che spingono coloro che hanno il potere di cambiare lo status quo a non cambiare nulla? Perché fare ancora affidamento su un sistema di valutazione e selezione vetusto, senza criterio e non meritocratico?
Apparentemente è un problema comune a tutti i concorsi pubblici tanto da diventare una prassi accettata. Ogni tanto si legge qualche articolo sul tema (relativamente al concorso di magistratura di quest’anno, si veda http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/04/irregolarita-al-concorso-per-magistrati-e-le-prove-scritte-rischiano-lannullamento/1047669/), ma poi inevitabilmente tutto finisce nel dimenticatoio. Il mio grido di protesta vuole essere quello di tutti quegli aspiranti avvocati che amano il loro lavoro, ma che vedono i loro sforzi frustrati da un sistema illogico che accoglie gli incompetenti e troppo spesso allontana dalla professione i meritevoli. Affinchè però il mio grido non sia solo di protesta e distruttivo, con questa lettera voglio anche proporre delle piccole misure (condivise dalla quasi unanimità della base praticante forense – e non solo) che possono portare ad un miglioramento della situazione attuale. Seguirà quindi un elenco dei principali problemi legati alla procedura d’esame di avvocato con le rispettive possibili soluzioni:
1) Il numero eccessivo di candidati
Come spesso si sente dire in giro: “Ci sono più avvocati a Roma che in tutta la Francia”. Effettivamente il numero di laureati in giurisprudenza è elevato. Non essendoci numero chiuso e venendo tale facoltà considerata come una delle più appetibili in termini di sbocchi lavorativi garantiti, molte persone scelgono questa strada. Il problema è che il sistema non è in grado di accogliere tutti questi laureati in giurisprudenza: ci sono i concorsi di notaio e di magistrato, ma non ogni anno e i posti sono pochi; ci sono le aziende ma in questo momento di crisi, anche le offerte provenienti dal privato sono in calo. Cominciare la pratica legale è l’unico modo per avere un posto di lavoro ed un salario certi. Ovviamente ciò crea delle forti distorsioni in tema di diritti del lavoratore: rapporti di lavoro non regolarizzati, paghe da miseria, orari di lavoro eccessivi, tutto questo perché la domanda è elevata e i giovani, pur di lavorare, sono disposti ad accettare tutto. La soluzione quindi è diminuire il numero della forza-lavoro a disposizione. Ciò permetterebbe di acquisire una maggiore forza contrattuale nei rapporti con il dominus, con sicure ripercussioni sulla qualità del lavoro (in termini di mansioni e retribuzione). I modi per contenere ed abbassare tale numero sono molti: 1) numero chiuso alla facoltà di giurisprudenza; 2) abolire la possibilità di andare fuori corso a meno che non si presenti all’università un regolare contratto di lavoro (che appunto certifichi impegni extrascolastici che giustifichino il ritardo negli studi); 3) obbligo di retribuzione del praticante quale condizione necessaria per l’iscrizione e la permanenza nell’Albo (da provare attraverso la presentazione mensile all’Ordine del cedolino/fattura); 4) la previsione di un pre-test a crocette sul diritto civile, penale e amministrativo prima delle tre prove scritte al fine di effettuare una prima scrematura oggettiva basata sulla cultura giuridica generale.
2) Irregolarità nel corso delle prove
Un numero più basso di laureati e praticanti porta ad avere di conseguenza un numero più basso di candidati. Ciò permetterebbe di gestire molto meglio la situazione caotica sopra descritta. Tolleranza zero per chiunque parli, copi, si alzi senza un valido motivo; con i commissari (e i delegati) non si deve parlare se non per questioni di “cancelleria” (fogli aggiuntivi, modalità di correzione di errori ecc…); fissare orari precisi per l’inizio e la fine del compito (in altre parole, dopo le 7 ore si smette di scrivere).
3) Tempi d’attesa biblici
Il numero inferiore di candidati porterebbe un altro vantaggio: ridurrebbe drasticamente il periodo intercorrente tra lo svolgimento delle prove e l’uscita dei risultati. Definire incivile un’attesa di 6 mesi è dir poco.
4) Criteri di correzione poco chiari
Infine ritengo un diritto della persona esaminata l’essere valutato sulla base di criteri certi, oggettivi e ben definiti. E soprattutto, è un diritto del candidato sapere quali siano stati gli errori commessi nello svolgimento delle prove (attraverso le dovute segnalazioni) e, se respinto, la motivazione sulla base della quale i commissari hanno maturato la decisione.

Queste sono solamente alcune delle idee proposte dall'ambiente degli aspiranti avvocati per cambiare questa "porcata" di procedura selettiva. Tante altre sono presenti in blog, forum, documenti più o meno ufficiali, ma rimangono rigorosamente inascoltate. Spero che questo "grido di rabbia" possa scuotere un po' le coscienze e far sì che, anche per la categoria dimenticata dei praticanti avvocati, qualcosa possa cambiare.

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