Il sabato sera è sempre carico di aspettative. E’ ormai
entrato nella vita di tutti come il momento dello svago, del divertimento,
dell’intrattenimento o semplicemente del “fare qualcosa”. Non si può non far
nulla il sabato sera. Il massimo sarebbe che fosse ogni volta estremo,
indimenticabile. Ma ci si può accontentare anche di un piccolo teatro o di una
cena etnica al ristorante dietro l’angolo. Insomma, senza farsi prendere
dall’ansia dell’originale a tutti i costi, l’importante è non starsene a casa,
magari andando a letto prima di mezzanotte. E’ da vecchi. E così sabato scorso,
dopo aver vinto una dura lotta sul divano contro pigrizia e sonnolenza, mi
ritrovo al cinema. In programma “The artist”.
Il fatto che si tratti di un film muto non mi spaventa. Ho
appurato che non è così per la maggior parte delle persone, tutte figlie del
sonoro e del dolby surround, i cui discorsi sul muto sembrano essere quelli di
gente che parla dei rimedi medicali di una volta, allora indispensabili, nel
tempo sostituiti dai più efficaci medicinali da banco, e per tale motivo ora
antiquati, inutili, quasi ridicoli. L’approccio, a mio avviso, è sbagliato. La
gente dovrebbe liberarsi da tali pregiudizi e gustare questa forma d’arte, il
cinema per l’appunto, nella sua versione primordiale, e per questo, più
essenziale, più originale, più vera.
Le parole, nel cinema, ricoprono una funzione secondaria.
Sono lo strumento attraverso il quale esprimi il tuo pensiero e i tuoi
sentimenti. La parola è completamento di ciò che già il tuo corpo ha espresso.
Pertanto, se per uno scultore gli elementi basilari per operare sono roccia e
scalpello, per un pittore tela e colori, per uno scrittore foglio e inchiostro,
per un attore, di cinema o teatro, il proprio corpo è strumento necessario e
sufficiente. Il muto quindi come essenza della recitazione, vera arte. E il
titolo del film rimarca il medesimo concetto: “l’artista” non è solamente un
riferimento a George Valentin – magnificamente interpretato da Jean Dujardin –
star del muto in crisi a causa dell’avvento del sonoro. E’ anche, soprattutto,
l’attore muto in sé, capace di raccontare ciò che sta vivendo e sentendo
semplicemente con i movimenti del proprio corpo e le espressioni del proprio
viso. E in questo il protagonista – Dujardin è magistrale. Sorriso ammaliante e
contagioso, perfetta padronanza del suo corpo, dimostra la sua bravura passando
dall’interpretare scene comiche (fantastica quella del ciak ripetuto più
volte), scene passionali, scene tragiche nel medesimo film. Suo alter ego,
anche nell’avvicendamento di fortune e sventure, è la splendida Peppy Miller –
Bèrènice Bejo, completamente a suo agio in assenza di sonoro, aiutata
moltissimo dalla naturalezza del suo sorriso, dall’agilità nei movimenti e, in
generale, dalla forte mimica dell’intero corpo.
Grazie alla bravura di questi due e del regista (Michel
Hazanavicius), l’assenza di parole non si nota più già dalla seconda scena. Ci
si sente subito trasportati più che dalla storia (nulla di eccezionale), da
questo modo ritrovato di seguirla, dalla brillante musica di Ludovic Bource che
l’accompagna e ne detta il ritmo, dalla nostalgia del bianco e nero, dall’essere
catapultati indietro di cento anni e per un attimo sentirsi immersi nell’ “età del jazz”. Che dire
allora: andate a vedere questo film, abbattete le vostre barriere “sonore”,
ripescate i vecchi film, magari partendo dal maestro Chaplin, riscoprite l’importanza
dell’immagine e l’inessenzialità della parola, liberatevi dai timori e dai
pregiudizi e siate SPETTATORI LEGGERI!
Ivan Karamazov