Essere donne non è semplice. Nel privato come nel pubblico. Ve
lo dice un attento osservatore di sesso maschile che, specie in quest’ultimo
periodo, lo ha potuto constatare in prima persona. Le difficoltà d’origine
sociale a cui la da sempre deve far fronte pongono la donna in una lotta
costante che, solo da poco, la stessa ha raggiunto la consapevolezza di poter
combattere. Tranne rari e nobili casi, il ruolo della donna nella vita civile e
lavorativa è stato secondario fino alla fine del secolo XIX, per poi emergere
piano piano fino ad un riconoscimento vero e proprio solo nella seconda metà
del secolo scorso. Le sempre maggiori conquiste nel campo della scienza, della
letteratura, dello sport e via dicendo hanno aiutato il “sesso debole” a
rinforzarsi e, finalmente, a infondere nel maschio l’idea che di debole ormai è
rimasto ben poco.
Eppure tale parità, varcata la soglia di una casa privata o
di un ufficio, viene di fatto dimenticata. Alla violenza fisica, legata più ad
un ambiente casalingo, si affianca la violenza psicologica e, come la definirei
io, la “violenza dei numeri”, in atto sul posto di lavoro. Senza andare ad
attingere da chissà quali statistiche, l’esempio è personale. Al piano
dell’azienda in cui lavoro, il piano “dirigenziale”, lavorano 20 persone, di
cui 6 donne e nessuna di queste con ruoli realmente apicali. Scendendo nella
scala gerarchica del potere aziendale invece, il rapporto uomo-donna si
stabilizza fino a raggiungere un nuovo squilibrio, ma stavolta inverso, sugl’ultimi
gradini. E’ così che ai piani alti si manifesta una sorta di processo di
isolamento, in cui la persona “debole” deve vedersela con una schiera di
impomatati e incravattati che per giunta - e qui subentra la seconda forma di
violenza – agiscono da entità superiori. Non solo. Se la sfortunata ha pure la
colpa di essere attraente, si da allora il via al festival del provoleggio.
Così che il posto di lavoro diventa un inferno, dove il giudizio e il
pregiudizio sono costanti e leggerezza, mancanza di rispetto e sottovalutazione
sono quanto un uomo esprime al cospetto della sua collega.
E’ così che, in un ambiente del genere, si aprono due
alternative: o il baratro, lo sconforto, la resa. O la resistenza, la lotta. “Testa
alta e sguardo fisso”, “Mai arretrare di un passo, sempre all’erta”, “Dagli un
dito e si prenderà tutta la mano”. Sembrano dettami da scuola militare o
consigli di altri tempi, ma invece sono regole che una donna deve tener sempre
bene in mente. Essere consapevoli della situazione in cui ci si trova, ma mai
dare adito all’altro di pensare che la si accetti. Una donna che riesce a
“sopravvivere” e, anzi, a respingere questi attacchi quotidiani può essere
definita “forte”. Ma attenzione. Tale concetto di forza, che nulla ha a che
fare con la prestanza fisica, non è semplicemente di natura mentale, ma anche
di natura sessuale. Solamente una donna infatti, in un normale paese civile, può
trovarsi costretta a ricorrerne.
Ebbene io ammiro questo tipo di forza. Per me le donne che
sono in possesso di tale dono – perché per me di vero e proprio dono si tratta
– sono delle vere e proprie eroine. A titolo rappresentativo avrei potuto
scegliere tra alcune che ho la fortuna di conoscere, ma ho preferito optare per
una persona, a mio avviso espressione massima del concetto di forza femminile.
Personaggio pubblico, il suo nome è conosciuto in tutto il mondo, ma pochi sono
coloro che sanno veramente cosa rappresenti. Lei è amore per il proprio Paese;
è lotta per i valori in cui si crede; è riscatto femminile in un mondo ostile. Aung
San Suu Kyi, figlia del generale Aung San, che si battè per l’indipendenza del
suo popolo e per tale motivo fu ucciso, eredita dal padre una forte sensibilità
verso i principi di libertà e democrazia. A Oxford, dove studia e mette su
famiglia, vive la prima parte della sua vita, ma il richiamo di dolore della
sua terra, insanguinata da decenni di dittatura militare, è troppo forte e
torna in patria per battersi proprio in nome di quei principi che suo padre le
aveva trasmesso. Questo le costò ventuno anni di prigionia scontati fra le mura
della sua abitazione, nel tentativo, da parte del governo birmano, di isolarla
dal suo popolo e dal mondo intero. Tentativo fallito perché ciò non ha fatto
che accrescere il suo seguito e amplificare l’eco della sua lotta per la causa
democratica. A mio avviso però il suo operato è ancor più sorprendente e
straordinario sotto un altro punto di vista, e qui mi ricollego al discorso
originario. Come acutamente osserva il giornalista Alan Clements, questa lotta
tra democrazia e dittatura, tra Aung San Suu Kyi e il dittatore Ne Win, può
essere vista, a livello più ampio, come la lotta fra uomo e donna, il maschile
contro il femminile, forza bruta contro forza interiore. In sostanza “si tratta
del vecchio modello maschilista del governo repressivo, dove potere è forza,
che viene sfidato da una nuova visione femminile di equità, dignità umana e
potere dell’amore”. Se sul piano fisico – autoritario non c’è partita, allora è
sul piano mentale – sentimentale che la donna deve battersi. In ogni luogo e in
ogni momento.
Ivan Karamazov
Bello, forte e purtroppo vero... Cosa ne pensi delle quote rosa? Sai che una mia docente dice che si sente svilita quando la chiamano per chiederle di far parte di un CdA solo perchè gli serve il 50% di donne per adempiere agli obblighi di legge? Lei può permettersi di rifiutare per mantenere alto il suo orgoglio, ma non so quante lo fanno.
RispondiEliminaE poi vorrei chiederti anche delle discoteche, quelle proprio non mi vanno giù... Cosa ne pensi del fatto che le gran femministe nella vita di tutti i giorni al sabato sera sono pronte a barattare il loro sesso per un ingresso gratuito in discoteca? 10 euro valgono la pena di sentirsi umiliata e sfruttata come un'esca per attirare maschi bevitori portatori di soldi?
Secondo me la parità dei sessi deve esistere, anzi non dovrebbe mai essere esistita la disparità, ma non è così che la conquisteremo, a volte mi sembra anzi che non la si voglia proprio...
Hasta siempre
The Boss