1970. Dopo l'Autunno Caldo, scioperi, cortei e scontri di piazza tra lavoratori e celerini la "classe operaia" (allora esisteva) raggiungeva una straodinaria conquista: l'approvazione da parte del Parlamento (in cui il partito di maggioranza relativa era la Democrazia Cristiana) della legge 300/1970, al secolo lo Statuto dei Lavoratori, in cui venivano riconosciuti alcuni diritti dei lavoratori dentro i luoghi dei lavoro e nei confronti dei datori di lavoro; tra questi diritti vi era anche quello del lavoratore di essere reintegrato nel luogo di lavoro qualora il Giudice avesse annullato il licenziamento intimanto dal datore di lavoro perché avvenuto senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo (grave inadempimento del lavoratore ai propri obblighi) o giustificato motivo oggettivo (ovvero per ragioni economiche attinenti l'organizzazione del lavoro o l'attività produttiva dell'azineda).
Questo diritto spetta solo ai lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti ed ai lavoratori subordinati impiegati con contratto a tempo indeterminato. Per i lavoratori delle aziende sotto i 15 dipendenti nel caso in cui il Giudice dovesse ritenere non esistenti i presupposti di legge di giusta causa o giustificato motivo allegati dal datore di lavoro per effettuare il licenziamento, può solo accordare al lavoratore un'indennità che va dalle 2,5 alle 6 mensilità. Per i lavoratori parasubordinati o a tempo determinato (ai tempi dell'approvazione della legge molto pochi) questa tutela, così come altre, non era prevista.
Per i licenziamenti per causa discriminatoria (motivi politici, religiosi, sindacali, raziali, di genere) invece il Giudice, sempre che si tratti di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, deve sempre ordinare la reintegrazione sul posto di lavoro, a prescindere dal numero di dipendenti dell'impresa.
2012.Il mondo è molto cambiato dagli anni Sessanta e Settanta. L'economia italiana (pur essendo ancora la settimana al mondo) arranca sotto i colpi della crisi ed è stata superata (o lo sarà nei prossimi anni) da quella di alcuni paesi emergenti. Il mercato del lavoro è cambiato: gli operai esistono ancora ma non sono più una "classe" (la classe operai è andata in paradiso, verrebbe da dire, parafrasando il titolo di un film);le grandi imprese sono sempre di meno ed il tessuto produttivo è formato sempre più da piccole imprese, molte delle quali non superano i 15 dipendenti; le imprese assumono sempre meno a tempo indeterminato e sempre più con contratti a termine, contratti parasubordinati (i famosi co co pro) con partite IVA fittizie (perché con un unico committente del servizio o della attività lavorativa resa), con gli interinali etc.
Ai lavoratori precari ed ai lavoratori delle piccole imprese (peraltro in genere esclusi dal circuito della rappresentanza sindacale che invece paradossalmente rappresenta un gran numero di pensionati, cioè di coloro che furono lavoratori), l'art. 18 non si applica. Eppure di questi lavoratori nessuno se ne cura, in primis i sindacati. I contratti flessibili (che di per sé non sono un male) sono ormai la porta per l'ingresso e, spesso, per la permanenza delle nuove generazioni nel mercato del lavoro: si tratta di lavoratori sforniti di molte tutele che hanno i lavoratori a tempo indeterminato (per esempio la maternità e l'indennità di disoccupazione) e che avranno pensioni bassissime e tante incertezze per i loro progetti di vita.
Sull'art. 18 in questi giorni c'é grande parapiglia. Si tratta di una questione anche valoriale che scalda i cuori e riaccende le sopite differenze tra Destra e Sinistra, Imprenditori e Lavoratori: da una parte c'è il diritto dei lavoratori a non perdere il lavoro se licenzati ingiustamente, dall'altra quello dell'imprenditore a poter licenziare lavoratori incapaci o che "per ragioni economiche" non può più tenere in azienda, a prescindere dalle valutazioni del Giudice (la verità processuale può non coincidere con la verità dei fatti) all'esito di un processo che può durare anche qualche anno.
E d'altra parte è evidente che una delle ragioni per cui le imprese assumono con contratti "precari" è la possibilità di lasciare a casa i lavoratori quando, evenutalmente non serviranno più all'impresa senza dover rischiare di passare dal Giudice. Purtroppo però questa non è l'unica ragione: altri motivi sono la maggiore convenienza economica dei contratti flessibili in termini di oneri contributivi ed il potere ricattatorio che il datore di lavoro ha verso il lavoratore con l'arma del contratto precario.
A me la soluzione di modifica dell'art. 18 proposta dal Governo Monti sembra confusa e pasticciata: se passa il principio che i lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo (cioè per ragioni economiche) poi riconosciuto dal Giudice come infondato, possono solo ricevere un risarcimento monetario, allora tutti i licenziamenti verranno motivati dai datori di lavoro con questa ragione in modo da non essere soggetti all'ordine di reintegrazione del giudice che permerrabbe in caso di licenziamenti giustificati per ragioni disciplinari o discriminatorie. Così facendo però si tolgono tutele ai lavoratori in un periodo di crisi e grave difficoltà per tante famiglie e lavoratori e si attribuisce al datore di lavoro un potere ricattorio enorme specie verso le donne od i lavoratori over 50 che, se perdonono il lavoro, fanno molta fatica a trovarne un altro.
Il punto di equilibrio a mio modo di vedere dovrebbe essere, quindi, un altro: in caso di licenziamento per ragioni economiche il Giudice dovrebbe avere la facoltà di scegliere se reintegrare il lavoratore oppure disporre l'indennizzo. E nella scelta tra le due opzioni il Giudice dovrebbe tenere conto della situazione della situazione economico - finanziara dell'impresa (fatturato, indebitamento etc.), in modo da poter venire incontro all'impresa che comunque si trovi in una situazione di difficoltà. Lo stesso dovrebbe avvenire per i licenziamenti avvenuti per gisutificato motivo soggettivo: bisognerebbe dare la facoltà al giudice di riconoscere al lavoratore il solo indennizzo e non la reintegrazione sul posto di lavoro quando, sebbene le colpe del lavoratore non siano tali da giustificare il licenziamento, comunque tali comportamenti siano rilevanti ed influenti sulla sua attività dell'impresa.
Ma non dimentichiamoci che l'art. 18 è solo una parte del problema, riguardando i soli lavoratori a tempo indeterminato. A mio avviso è urgente ridurre la giunga dei contratti precari andando verso un contratto "unico" di inserimento dei giovani di durata triennale (senza la tutela dell'art. 18, ma con tutte le altre tutele dei lavoratori a tempo indeterminato), con incentivi per le imprese che stabilizzano i giovani al termine del triennio assumendoli a tempo indeterminato.
In ogni caso la riforma del mercato del lavoro va fatta con legge ordinaria, restituendo piena sovranità al Parlamento.
Antigone